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#TBT Quando il Dream Team giocò la miglior partita della storia

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Una squadra, dodici giocatori, una missione. Anzi, meglio: LA squadra, i dodici giocatori -sbilanciamoci- migliori al mondo, LA missione: l'oro olimpico. Ecco cosa è stato il Dream Team del 1992. Sì, perché quando il comitato olimpico ha finalmente dato il via libera all'approdo dei giocatori ...

Una squadra, dodici giocatori, una missione. Anzi, meglio: LA squadra, i dodici giocatori -sbilanciamoci- migliori al mondo, LA missione: l’oro olimpico. Ecco cosa è stato il Dream Team del 1992.

Sì, perché quando il comitato olimpico ha finalmente dato il via libera all’approdo dei giocatori NBA quali rappresentanti della nazionale americana di basket, il mondo è cambiato. Le Olimpiadi del 1992, infatti, furono il primo vero momento in cui l’intero globo poté vedere, ammirare e idolatrare i campioni della lega cestistica più forte del mondo.

Una squadra di campioni di caratura massimale capace di triturare gli avversari del Tournament of the Americas con uno scarto impietoso e terrificante di 51,5 punti di media, e che schiaccerà e abbatterà, in maniera altrettanto impietosa, le nazionali incontrate ai giochi olimpici con 45,8 punti di media di differenza.

Era il team dei due lunghi Patrick Ewing e David Robinson, mix letale di forza e atletismo; del duo di Utah Stockton/Malone; dell’imprevedibile Sir. Barkley; dell’Aliante Drexler; del cecchino Mullin; del miglior secondo della storia Scottie Pippen; dell’allora collegiale e mai esploso in NBA Laettner (breve inciso: vi immaginate se in quella squadra fosse stato chiamato l’altro college boy Shaquille O’neal?). Infine, fu la squadra dei tre capitani, i migliori che un giocatore possa desiderare: Michael Jordan, Earvin Magic Johnson e Larry Bird.

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E’ opinione comune che quella squadra fu la più grande che abbia mai giocato insieme.

Si tratta del più grande assemblaggio di superstar che abbiano calcato assieme il parquet di un campo da basket.

Tuttavia, la partita più bella, la più intensa e magnifica che quei campioni abbiano mai giocato non fu uno degli incontri del campionato olimpionico, dove gli avversari non potevano che arrendersi al loro strapotere e alla loro grandezza. Il match che la storia ha avuto l’onore di osservare dei Dream Teamer non fu una di quelle partite in cui stracciarono Nazionali con scarti imbarazzanti e surreali, con spalti stracolmi e gente ammaliata dalla classe divina di dei del basket travestiti da Hall of Famer.

L’incontro più fantastico che quegli atleti disputarono si tenne, invece, nel pomeriggio del 22 luglio 1992, dopo un allenamento di preparazione al tour de force olimpico.

A quella partita poterono assistere pochi -invidiati, invidiatissimi- eletti. Le tribune erano vuote; gli addetti alla stampa cacciati; solo i dodici Dream Teamer sul parquet, coach Chuck Daly in panca assieme al suo assistente (futura leggenda) Mike Krzyzewski, Jack McCallum (giornalista di Sports Illustrated che diede la descrizione più precisa e dettagliata di quella memorabile partita) e un certo Pete Skorich, un addetto alle riprese, amico di Daly, che ebbe la fortuna di registrare il match.

A dirigere l’incontro un arbitro italiano -il cui nome, mannaggia, la storia non ricorda- e l’altro assistente di coach D, PJ Carlesimo. Quest’ultimo aveva accettato mal volentieri l’incarico, certo dell’inevitabile valanga di insulti che si sarebbe preso dai giocatori -eh, caro PJ, se fossi stato così timoroso anche quando allenavi i Golden State probabilmente avresti evitato lo strangolamento di Latrell Sprewell-.

Con Stockton e Drexler acciaccati, le squadre vennero divise in base alla Conference di appartenenza:

Bianchi: Bird, Malone, Ewing, Pippen, Jordan.

Blu: Laettner, Barkley, Robinson, Mullin, Johnson.

Al fischio di inizio, Daly urla dalla panchina:

“Ora date tutto quello che avete!”.

Ora, io penso sia la frase più inutile che si sia mai detta in un campo di basket. Sì, perché in quel match, su quel parquet, si stavano per -passate il termine- scannare gli atleti più competitivi, forti -Laettner, tu non c’entri- e incredibili dell’allora mondo.

Quello era l’incontro di Ewing contro Robinson, un rullo compressore contro una molla armata di una corazza di muscoli; era la sfida tra le due ali grandi più terrificanti della lega: the Mail Man, un colosso di granito serio e professionale, contro Round Mound of Rebound, quel misto di genio, sregolatezza e ciccia di Charles Barkley.

Era il match dei due cecchini, quello moderno, Mullin, quello antico, etereo, eterno, Larry Bird. Era, però, soprattutto la sfida tra i due capitani, i due galli incaricati a portare sulle proprie spalle il peso di quella squadra, due galli, appunto, che volevano cantare la stessa melodia, ma uno più forte dell’altro: Magic vs. MJ.

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La partita fu una cruda e barbara rassegna di trash talking tra i due Caps.

Magic si era appena ritirato dal basket professionistico, dopo aver scoperto di aver contratto il virus dell’HIV; Michael Jordan era semplicemente il più grande giocatore del mondo -e continuerà a esserlo-. Tuttavia, Magic, oltre a non ammettere questa realtà di fatto, sentiva il Dream Team come suo. Lui si era occupato di gran parte del lavoro davanti ai media e, spesso, del reclutamento di giocatori come il suo eterno rivale/amico Bird. Lui doveva essere il faro di quella squadra. Air gli permise di essere il protagonista di tutto ciò che riguardava l’extra basket. Tuttavia, in campo il re poteva essere ed era solo uno: lui, il numero 9, il nume Zeus con ai piedi le Nike Air Jordan.

Il match, dopo un iniziale vantaggio dei Blu di Magic, fu vinto dal team di MJ. Quella sfida doveva essere vinta da lui, a riprova del fatto che sul tetto dell’Olimpo cestistico il trono era occupato solo ed esclusivamente dalle sue regali chiappe.

Durante l’incontro la frase che più venne ripetuta da Magic fu:

“Hanno semplicemente trasferito qui il Bulls Stadium!”,

a voler sottolineare come in NBA e -secondo lui- anche l’arbitro italiano si favorisse His Airness. Jordan, però, mai come in quella partita dimostrò la sua granitica tenuta mentale, la propria indole di cacciatore terribile.

Lui vinse quella partita (realizzò 17 punti e 8 assist), ma il merito lo attribuì a Larry Bird. Il 33 dei Celtics era alla fine della propria carriera e i problemi alla schiena erano gravi a tal punto da costringerlo a rimanere sdraiato per terra a bordocampo, mentre doveva rimanere in panchina.

In quell’incontro, così come in diversi match di quel cammino olimpico, Bird apparve l’ombra di quel maestoso giocatore che fu negli anni ’80. Tuttavia, Michael vide in una splendida giocata dello stesso Bird -palla rubata, finta dietro la schiena e appoggio sottomano- il momento di svolta che avrebbe permesso ai suoi Bianchi di battere il team di Earvin.

Alla fine dei minuti di gioco, poi, Jordan continuò a canticchiare una canzoncina, slogan di una campagna pubblicitaria della Gatorade, della quale lui era sponsor:

“Sometimes I dream,

If I could be like Mike”

Sempre guardando negli occhi Magic, l’unico giocatore che potesse -o meglio, avrebbe potuto- contrastare il suo saldo dominio nel panorama cestistico.

Beh, probabilmente il Dream Team fu veramente la squadra più forte di tutti i tempi; un simile assortimento di talenti difficilmente sarà replicabile, e penso che chiunque sia appassionato di basket desidererebbe aver fatto parte di quel team.

Tuttavia, puntando la lente di ingrandimento più nello specifico, quale sarebbe il giocatore che tutti avrebbero voluto impersonificare anche solo per un istante? Erano tutti fortissimi, stratosferici e universalmente riconosciuti come devastanti. Ma sfido chiunque a osare dire che, in mezzo a quel marasma di maschi alfa, il giocatore che si sarebbe voluto essere non sia Michael Jeffrey Jordan. Perché alla fine tutti, anche Larry o Magic, anche solo per un istante, vorremmo essere like Mike.

Kristoffer Castillo